LE MANOVRE IRANIANE NEL GOLFO PERSICO PREOCCUPANO LA CINA

Pubblicato il da paetomm@gmail.com

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L’esercitazione Velayat 90 dell’imprevedibile regime di Teheran, iniziata alla vigilia di Natale, sta facendo traballare le certezze degli establishment politici occidentali e la stabilità delle quotazioni del Brent (che ieri ha superato la soglia dei 108 dollari al barile) e del prezzo del greggio americano (che è arrivato a sfiorare i 100 dollari al barile) .

Ma non sono solo le pericolose manovre iraniane nelle acque del Golfo Persico a creare preoccupazione. Nell’Oriente estremo i vertici politici del Partito Comunista Cinese (PCC) si stanno interrogando sulle reali intenzioni degli ayatollah – alleati fedeli del governo pechinese da più di 30 anni.

Numeri alla mano, il conto è presto fatto. Il 21 dicembre, l’agenzia Reuters diffondeva i dati sull’andamento della domanda petrolifera cinese nell’arco dell’ultimo anno, segnalando un aumento del 2,6% rispetto al valore riscontrato 12 mesi or sono. A novembre, le importazioni cinesi di petrolio iraniano sono lievitate dell’8,5% rispetto allo stesso mese del 2010, arrivando a coprire il 10% della domanda energetica del Regno di Mezzo. Se Teheran si attesta stabilmente al terzo posto nella speciale classifica degli esportatori di greggio alla Cina, sul gradino più alto del podio troviamo l’immancabile regno saudita.

Evidente quindi come le minacce iraniane di chiudere lo stretto di Hormuz (da cui passa non solo il greggio della Repubblica Islamica, ma anche buona parte di quello saudita, iracheno e kuwaitiano) possa quanto meno sollevare importanti preoccupazioni nel partito comunista di Pechino.

Tra Teheran e Pechino qualche tensione si era però già vista ancor prima dell’avvio dell’esercitazione Velayat 90. Il 21 dicembre era iniziato un braccio di ferro che riguardava, neanche a dirlo, il prezzo del greggio iraniano. Dopo il rifiuto degli ayatollah alla richiesta cinese di accordarsi su prezzi più convenienti per il PCC, la Sinopec – China Petroleum & Chimical Corporation – aveva reagito annunciando il taglio di quasi il 50% delle proprie importazioni per gennaio.

Una minaccia che difficilmente andrà in porto. Ed ecco il governo di Pechino giocarsi la sua prima Carta: quella Saudita, diretta senza troppi fronzoli contro i vertici della Repubblica Islamica. Se davvero Teheran non accettasse di abbassare il prezzo del greggio (ed aumentarne la quantità esportata) al suo alleato, l’Iran perderebbe una fetta importante delle sue esportazioni (equivalente al 10%). Una quota di mercato che, oltre ad essere difficilmente ricollocabile a causa delle pressanti sanzioni occidentali, potrebbe essere coperta in buona parte dall’Arabia Saudita, acerrimo nemico degli ayatollah. Una minaccia, tra l’altro, già resa ampiamente credibile dall’impennata delle importazioni cinesi di greggio saudite nel mese di novembre (+32,3% rispetto allo stesso periodo di un anno fa). Uno scenario che potrebbe rivelarsi per Teheran una vera e propria debacle su tutti i fronti.

Viene da chiedersi dunque se Pechino voglia sperare in un Iran con le spalle al muro, pressato così tanto dalle sanzioni occidentali da diventare più docile nella contrattazione del prezzo del greggio. Senza contare che i vertici del PCC non sembrano volere un Iran nucleare, soprattutto quando uno scenario di questo tipo significherebbe un innalzamento tale delle tensioni nella regione da rendere plausibile una qualche forma di conflitto armato. Addio petrolio sicuro e prezzi del greggio stabili.

Viene da chiedersi, quindi, se Pechino potrebbe volere un vero e proprio regime change in quel di Teheran. La risposta, semplicemente, è un “no”. Perché il Regno di Mezzo, oltre a sapersi giocare con astuzia la Carta Saudita con gli ayatollah iraniani, da vent’anni ha appreso come giocarsi la Carta Iraniana con i vertici politici di Washington. Nel caso di una riconciliazione Iran-Usa, che si potrebbe verificare ad esempio proprio con un regime change, Pechino perderebbe la possibilità di legare la questione del nucleare iraniano a quella della vendita di armi a Taiwan – uno dei nodi più stringenti delle preoccupazioni di sicurezza nazionale della RPC.

Il gioco è semplice: quando Washington vende le armi ai nazionalisti, Pechino minaccia di bloccare il regime sanzionatorio contro gli ayatollah. Uno strumento che di fatto sopravvive solo in uno scenario di equilibrio e che perderebbe invece la sua efficacia in due casi: se lo scontro strategico tra Iran e Usa diventasse tanto aspro da azzerare i margini di manovra di Pechino e se i due attuali nemici “facessero la pace”, rendendo inutile l’utilizzo della Carta Iraniana. Perché, è bene ricordarlo, i vertici del PCC hanno ben chiaro che l’importanza dei rapporti sino-americani non ha nulla a che vedere con quella dei rapporti sino-iraniani.

Qual è quindi la risposta di Pechino ad un’escalation della tensione tra Iran e Usa e nella regione del Golfo Persico? Al Regno di Mezzo non rimane che mantenere un basso profilo, il più basso che possa permettersi.

Anzitutto i vertici del PCC cercano di non legare indissolubilmente la propria immagine all’attuale leadership di Teheran. In occasione dell’Expo di Shanghai 2010, i leader cinesi hanno declinato con eleganza (e con discrezione) l’invito ad incontrare Ahmadinejad. In secondo luogo il governo di Pechino ha recentemente influenzato alcune imprese nazionali nella decisione di investimenti da compiere nel Paese persiano. Il 10 dicembre scorso, veniva resa nota la notizia che l’azienda cinese Hawei Technologies aveva stabilito di restringere volontariamente il proprio giro di affari in Iran. Le decisione sarebbe in realtà stata influenzata da Washington, che aveva rilevato la vendita di tecnologia mobile al governo di Teheran. Il materiale trasferito sarebbe però stato dotato di un sistema per tracciare i dissidenti iraniani e avrebbe di fatto scatenato le ire americane.

Il basso profilo adottato da Pechino si è esteso anche nei consessi internazionali. E proprio qui la Cina ha giocato il suo terzo ed ultimo jolly: la Carta Russa. I vertici del PCC hanno capito in fretta che sovraesporsi nella difesa delle (spesso indifendibili) posizioni iraniane non avrebbe portato ad esito positivo. Pechino ha quindi cercato di convincere Mosca – che condivide i medesimi interessi cinesi in Iran – a prendere la guida del “fronte di resistenza” alle sanzioni che l’Occidente continua ad imporre a Teheran.
                                                                                        133856186-8df86ca2-da64-4cbb-94fe-97051204455f.jpgCosa succede però se il Regno di Mezzo si adegua ad un basso profilo e Teheran opta per un’escalation dello scontro? E qui torniamo all’oggi. L’ipotetica chiusura dello stretto di Hormuz, per quanto davvero improbabile, avrebbe pesanti ripercussioni sui rapporti sino-iraniani, ma anche (più lievi) su quelli sino-americani.

Provocherebbe anzitutto l’azzeramento della Carta Iraniana, che Pechino stava cercando di giocare per spingere gli Usa ad abbassare il profilo nel Mar Cinese Meridionale. Dopo gli anni di “ibernazione” di Bush, l’attivismo degli ultimi mesi dell’amministrazione Obama in questa regione ha catturato l’attenzione dei vertici del PCC. La chiusura di Hormuz metterebbe inoltre sotto pressione le riserve strategiche di petrolio che la Cina sta tentando di espandere proprio per prevenire tali emergenze. La decisione cinese di aumentare le importazioni del greggio iracheno e saudita per bilanciare la perdita (potenziale) di quelle iraniane del prossimo mese potrebbe non essere più sufficiente.

L’imprevedibilità degli strateghi di Teheran sembra comunque mettere in difficoltà Pechino più sul piano politico che su quello energetico.

Da più di un decennio la Cina ha infatti avviato un’efficace strategia di differenziazione delle risorse energetiche. Recentemente il governo cinese ha mostrato ancora una volta la sua volontà di trovare valide alternative alle importazioni di greggio provenienti dal Golfo. Il 27 dicembre la compagnia petrolifera statale cinese CNPC (China National Petroleum Corp) ha concluso un accordo con il governo di Kabul per la creazione di una joint-venture insieme alla compagnia afghana Watan Group, per lo sfruttamento di tre giacimenti nel nord del Paese. Due giorni prima, il rappresentante per gli Affari Africani cinese Liu Guijin si era recato a Juba – capitale del Sud Sudan – per inserirsi nella diatriba petrolifera tra Juba e Khartoum e non perdere la quota del greggio sudanese in mano alla CNPC.

L’escalation di tensione provocata da Teheran rischia quindi di rovinare i piani di Pechino. Se sotto il profilo energetico la pressione creata dall’azzardo iraniano sembra non provocare grossi scossoni al colosso asiatico (a meno di una chiusura effettiva dello stretto di Hormuz), dal punto di vista politico la questione si complica. Se Pechino non potesse più giocare tutte le sue Carte, quella Iraniana in testa, la sua posizione nel rapporto con Washington ne uscirebbe decisamente indebolita.

 

fonte: http://www.meridianionline.org/2011/12/29/tutte-le-carte-di-pechino-hormuz-nella-partita-cinausa/

di Elena Zacchetti  

Photo Credit: JD Hancock / Flickr CC                                                                                                                     olivia

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